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La morte č il topos piů frequentato dall'uomo, un turbamento che dalla notte dei tempi ne contrassegna l'immaginario e le opere. Ogni epoca abbonda di simboli legati all'idea della transitorietŕ, ma fra tutti ne spicca uno: il teschio, simulacro spesso "pensoso" che ci ammonisce sulla vanitŕ di ogni cosa terrena e ci costringe a riflettere sui fini ultimi dell'esistenza. Emblema della vanitas, il teschio ricorre nelle raffigurazioni medievali a suggello di corpi imputriditi che turbavano gli incauti viandanti. Emancipatasi dalla carne e ridotta a "corpo secco", la optima pars dello scheletro si avvia, giŕ in pieno Rinascimento, verso il suo apogeo seicentesco. In seguito l'effigie scheletrica conosce alterne fortune. Nel Settecento perde gran parte dell'afflato macabro a vantaggio di rifioriture dei sottogeneri connessi al memento mori, senza esaurire, peraltro, la sua carica dirompente. E se nell'Ottocento conosce una fiacca ripresa, č nel corso del Novecento che riacquista buona parte del suo magistero. La sua esasperata popolaritŕ corrisponde perň al crinale del nuovo millennio, quando teschi e scheletri tornano a signoreggiare fra le arti visive. Un vertiginoso incremento, quantitativo piů che qualitativo, a cui non corrisponde automaticamente una rinnovata vitalitŕ. Sembra infatti che l'arte si sia a tal punto assuefatta all'effigie del teschio da esserne quasi anestetizzata.